ANTOLOGIA CRITICA


Dicembre 2013 - gennaio 2014

La figura umana nella pittura e nella scultura di Stefano Piali: tra mito, realtà e visione. Nei suoi dipinti e nelle sue sculture Stefano Piali (Roma, 1956), straordinario interprete di miti, concilia due cose inconci liabili: il sogno e la memoria. Costruisce visivamente sogni mantenendosi sempre sulla traccia della memoria, individuale e collettiva. Le sue sono figure partorite da emozioni profonde, individuali, e nello stesso tempo archetipi, forme originarie o frammenti di una totalità perduta. La luce domina come elemento plastico-costruttivo in scene mistico-mitologiche, o serve ad "allucinare" e rendere visionarie scene di vita quotidiana, una "Maternità", o il ritratto di alcune modelle. Tutto ciò sempre sulle tracce del fantasma sfuggente della bellezza, che già Platone aveva definito come l'esperienza metafisica per diretta. La post-modernità lha recuperata attraverso l'arte, il mito, il mito e la memoria del'arte. Piali ritrova una profonda freschezza spirituale proprio attraverso la memoria, memoria della tradizione e delle grandi figure di artisti. Memoria del "classicismo", che è presente sia come problema, affrontato secondo una lucida prospettiva interpretativa, sia come repertorio tematico: ingrediente primario ch transita tra tela dipinta e scultura, e trova proprio nel mito il suo principale vettore di espansione. Suoi personaggi d'elezione sono i personaggi del mito: eroi, centauri, cavalieri, angeli, guerrieni, pervasi dall'energia esaltante del movimento, che si sprigiona ad esempio nel tema della metamorfosi o in quello del volo. Il mito innesca in Piali un processo di fantasia linguistica in grado di produrre nuove forme, di notevolissimo impatto emotivo e formale. Del resto, scriveva De Chirico, il mito è ciò che, del reale, aiuta a rivelare "lo spettro", a "intuire il dèmone: lui stesso si proponeva, nel 1920, di essere "demonicamente classico perché il classicismo, in epoca moderna, solo in forma di demone può apparire. Affascinanti dàimones sono allora anche gli Angeli di Piali, nello stesso tempo enigmatiche espressioni di un'intensa realtà interiore e messaggeri dell'eterno rinnovarsi del pensiero e dell'immaginazione delluoma. Come tutte le sue figure, pittoriche o scultoree che siano, sono come animati dallo slancio di un'energia liberatoria,oltre ogni precetto stilistico-normativo e oltre ogni fissità stereotipa. Un'energia che sembra talora rinviare alle linee-forza iperdinamiche del Futurismo, e ancor prima alla poetica barocca del movimento e che, irradiandosi nello spazio, conferisce alle sue strutture una potenza visionaria. Ne è uno splendido esempio anch grande bronzo del 1985,Monumento allaviazione generale, collocato all'aeroporto di Ciampino. È chiaramente centrale il tema del corpo, nel lavoro di Piali, che reinterpreta continuamente il concetto di mito e quello di mimesi, secondo un'attitudine "visionaria" grazie alla quale ogni corpo-ligura genera il suo spazio assoluto. Nella sua pittura e nella sua scultura la figura umana rimane sempre centrale, in contro-tendenza rispetto al panorama generale Il nostro Millennio dovrà are i conti con l'uomo, dovrà riaffermare una uova figuraztone cbe affonda nelle radici della storia, ma ba bisogno di una ruova dell'arte contemporanea. A questo proposito, afferma l'artista stesso immagtne di sé. C'è bisogno di un nuovo umanesimo, perché stiamo consumando tutti i valori fondamentali che ci riconducono all'uomo".

1997

Piali è capace di grandi impaginazioni scenografiche anche quando costringe il racconto in un foglio piccolo o in una dimensione domestica per le sue sculture. Tale capacità di resa scenografica gli proviene dal centrare le sue attenzioni su la figura del corpo quale maschera di un corpo spirituale che invita a sua volta allo svelamento della propria intimità, di essere il corpo della forma. I contorcimenti anatomici di impianti manieristici, come se figure dall'abside della fiorentina San Lorenzo o dei romani angeli del Bernini si fossero staccati e venissero, da quella parete del Pontormo, a depositarsi su la tela o nel marmo di Piali; accavallano e mettono in piramidale ascesa nudi pensosi e volti stralunati e dolcezze dalle sensualità ai limiti del retorico. C'è in Piali una felicità espressiva in cui convergono diverse stagioni del suo personale itinerario critico. Da una figurazione dove un freddo realismo acceca e gela la descrizione naturalistica, ad una decantazione da ipermanierismo o da "museo parallelo" dove la citazione è stemperata nella categoria della evocazione letteraria e contestuale alle scenografie del racconto figurale.

1979/1985

Prossimi all'irrompere di una nuova epoca, nella quale un ciclo della civiltà dell'uomo si conclude, nell'imminenza di una "mutazione" della specie, i cui referenti sono poco chiari, viviamo il travaglio di un processo e la disperante e sofferta ricerca del nostro Fato. Piali nel riparo di Marino, a pochi Km. da Roma in una condizione di concentrazione, lontano dai negotia della critica e dalla moda avverte la necessità irreversibile di questa ricerca che collega l'affonda nelle regioni dell'inconscio alla contemplazione dei cicli eterni della natura e del cosmo, per una nozione di sé, come uomo in questa società e storia, e una nozione della totalità. La tensione di questo spazio infinito ed assoluto dilata fino alla condizione estrema l'immagine che subisce radicali metamorfosi si protende fino a cambiare sembianza e ritrovarsi al limite, prossima alla sua disintegrazione nella conflagrazione finale che la riconsegna all'energia ultima apparizione figurale prima della sua ultimazione. In questo passaggio è presente il residuo fumoso di un'esplosione iniziale: l'inizio e la fine stanno in qualche punto di questo orizzonte, all'estremo di un diametro cosmico. I dati si presentano all'uomo come un evento istantaneo ed irripetibile, una risposta giusta al magico ed al sacro che irrompono nella vita e richiedono di essere accettati, amati, in una dimensione che impone il suo primato sul passato e sul futuro: è la sincronicità, la dimensione del mito... Tutto, anche il mito, e la sua immagine vive in una sua estrema, quasi impossibile realtà, l'opera tende a dare il senso di questo "processo", o almeno nella sua materialità e presenza farsi allusiva, al vertice e alla spirale che ci ingoia e ci sospinge verso l'abbisso, lo spazio aperto e infinito dove ritrovare la finale, per ora, posizione e funzione dle Cosmo, l'equilibrio dopo l'ultima caduta......

Maggio 1995

Per avvicinarsi all'opera di Stefano Pial bisogna porsi -a mio avviso- in una condizione elementare di pensiero, dove l'arte venga spogliata di ogni intellettualiamo, per venire innanzitutto intesa come tensione morale e come ricerca della propria identità. E non ó che in Piali non esista un ricchissimo retroterra culturale, ma questo enorme bagaglio viene posto al servizio delle sue pulsioni interiori, ed è pertanto il mezzo, non il fine, della creatività. Non ci sono strumenti ermeneutici osaustivamente adeguati eccettuando l'intuitività -per comprendere artisti cosi genuinamento sorgivi. Niente di naif, per carità! Anche perché quella naif è un' operazione tutt'altro che antintellettualistica, come si vorrebbe far credere. E del resto - è risaputo - la semplicità è una conquista per l'essere umano, non un dono. La semplicità non o altro che la penetrazione nel proprio mistero, nei propri valori intrinseci, individuali e universali nello stesso tempo. Il che pretende un accesso metafisico alla propria essenza spirituale, o se volete alla propria Musa, dal momento che parliamo di un artista. Parlando di Stefano Pali, non si può non scavalcare ogni intellettualismo, ogni tentativo di giustificare orizzontalmente il fenomeno creativo, facendolo nascere dalle mode o dalle etiche del tempo.C'è, in questo artista, la feroce ricerca del proprio demone o del proprio angelo interiore. C'è un incendio metafisico che non ha nulla a che fare con le metafisiche tradizionall, perché qui il piano universale è risolto nei termini stessi dell'individualità. I veri valori si raggiungono verticalmente, in un volo libero nell'etere alla ricerca di se stessi.Le radici di ciascuno sono nel cosmo. Ecco che l'universalità non è un valore che possa venire fissato dogmaticamente, giacché essa è propriamente l'essenza individuale. Il linguaggio artistico di Stefano Piali pretende questa particolarissima chiave di lettura,giacché non può essere ascritto, a mio avviso, alle poetiche fondamentalmente irrazionalistiche del Novecento, e tuttavia resta impossibile ricorrere per esso all'antico e borioso coscienzialismo. Non siamo dunque in presenza di un recupero delle poetiche idealistiche, classico-romantiche, di cui peraltro si accettano alcuni elementi (l'antropomorfismo esplicito, le tensione dell'ordine, sia pure convulsa e non razionalistica). Ma non siamo neppure in presenza di quella dispersione dell'io nelle cose, che di rimbalzo isola la mente in se stessa, di cui si rendono artefici gli avanguardismi e gli intimismi attuali, se pure si accettano anche di queste poetiche alcuni insegnamenti (il dinamismo vorticoso e lo scandaglio dell'inconscio). In questa poetica ci sono elementi ricollegabili alle filosofie chiaro-scurali, o filosofie del risveglio autocritico, di cui non a caso Stefano Piali si è reso promotore insieme ad altri personaggi. Secondo questa poetica il conscio e l'inconscio non sono altro che due facce della stessa medaglia. Un sunto, dunque, ed insieme un superamento, dell'antropocentrismo antico e del nichelismo dei nostri tempi. Un richiamo a quella scienza superiore delluomo che parla della sua stessa identità angelica, strettamente connessa con il suo piano fisico. In questa epíca ricerca di se stesso, Stefano Piali raccoglie l'eredità di un arco assai ampio e variegato delle esperienze estetiche contemporanee, innestandole in una tensione cosmica assai singolare. Par molti aspetti i suoi racconti possono considerarai delle rappresentazioni interiori, mentali, mentre per molti altri possono considerarsi degli atti gestuali, delle invasioni dinamiche dello spazio, Il fatto è che Stefano è pervenuto all'attuale vena espressiva attraverso strade molteplici e contraddittorie. Egli è tra i pochi che ha realmente il coraggio di porsi in crisi costantemente, abbandonando di colpo traguardi che altri considererebbero appaganti e definitivi. Quando lo conobbi, agli inizi degli anni Ottanta, stava uscendo da un'esperienza sofferta di iperrealismo con risultati più che sorprendenti e davvero unici nel suo genere. Incurante dei fermenti allora nascenti della nuova figurazione manieristica, Stefano stava mandando al macero - egli ancor giovanissimo - un bagaglio incredibile di sapienza espressiva che gli avrebbe garantito un successo immediato e sicuro. Così egli abbandonava l'immobilismo statico della figurazione iperreale e iniziava a sdoppiare le immagini, come preso dalla voglia di ritrarne il retroterra inconscio, il fiume di energia misteriosa che vanamente nell'inganno trompe-l'oeil aveva cercato di mascherare. C'è da annotare, dunque, che il movimento di cui le sue tole si iniziavano ad animare aveniva in uno spazio prevalentemente mentale. Di li a poco, ecco i dipinti immergersi in un dinamismo particolare, che gettava l'artista in una stupefacente esperienza astratto-informale. Qualche anno dopo, sul finire degli anni Ottanta, un nuovo ripensamento. La figurazione ritornava, seguendo e riprendendo le urgenze rappresentative dol Piali, ma si innestava in quelle vorticose trasmutazioni di energie esperite nell'esplosione gestuale. In questa fase -che è quella che l'artista attualmente vive - è un'urgenza di equilibrio a farsi strada fra le due opposte distanze del moto e della stasi. Vitalismo e contemplazione si alimentano l'uno con dell'altra, in uno scambio che è pacifico ed armonioso in virtü dei conflitti da cui è sostentato. Come pensava Eraclito, tutto muta e tutto rimane identico nella mutazione. Questa armonia degli opposti - testimoniata anche dal taoista Lao-tzu in un'altra area di pensiero - resterebbe comunque incomprensibile senza il chiarimento socratico, secondo cui è l'individuo a modificarsi, conoscendosi, ma restando sempre se stesso nella mutazione. Questo tratto autocritico, a mio avviso, non ha alcunché di illuministico, mentre il richiamo all'individuo è decisamente antidealistico, antidialettico, giacché si rifiuta di porre all'esterno l'armonia degli opposti, nel divenire storico o anche ultramondano. Purtroppo a poco è valsa l'incitazione socratica a guardare dentro se stessi, anziché delirare intorno al fondamento di tutte le cose. L'armonia è bic et munc, è nella comprensione intima dei conflitti medesimi e non nella loro risoluzione esteriore. Essa non è altro che lo scontro/incontro dell'individuo con se stesso, attraverso il quale - in un procedimento autocritico - egli ritorna dentro se stesso dando vita al suo altro impegno creativo e morale. Se evoluzione c'e, è evoluzione comprensiva, e non selettiva o dialettica, proiettata sul lato esteriore. Ecco che stanno nell'individuo stesso i valori universali. C'è nella poetica di Stefano Piali, un ritorno della simbologia celeste - di una nuova angelologia, potremmo dire - fondata su presupposti assai diversi da quelli in cui si manifestava in passato, dacchè qui lo sprto celeste nom è altro che l'identità metafisica dell' uomo stesso , nel tentativo strenuo di raddrizzare se stesso per essere esattamente ciò che la propria matrice arcana vuole che sia. Piali, in sostanza, non ta che coglere questa dualità dell' essere, in una gara con se stesso che ha lo scopo di alimentare la fede in se stesso , superando,nell'accertarlo e nel viverlo,ogni intralcio, ogni condizionamento o limite che l'esistenza frappone. I sui lavori sono le gesta eroiche di questa ardue scalata interiore. Guerrieri omerici e intrepidi lottatori, valorose amazzoni e scalpitanti destrieri si aggrovigliano in storie inestricabili e si aventurano in trame celesti, numinose, arcane. Sono vicende reali di uomini còlti nei loro volti segreti ed angelici, nei loro risvoti metafisici e astrali. E' il viluppo delle commedia insieme divina ed umana. Ed ecco fuochi, scudi, elmi, armature. Ecco ali e scie luminose. Ecco fuochi roventi e criniere al vento. Ecco vestiti e drappi srotolati in un'ansia di denudamento, di svelamento della verità ultima umana. Il tutto in atmostere livide, grandiose, cruente, teatro fervido della liberazione dell'io. Non sono giochi dela fantasia, ma balconi sulla realtà dell'essere che s'incarna per un suo preciso disegno evolutivo. Sono i fotogrammi delle sue sconfitte e delle sue rinascite, delle sue preghiere e delle sue imprecazioni, dei suoi incanti e dei suoi disincanti. Sono il film delle sue incoerenze, delle sue illusioni e delle sue contraddizioni, sulla strada della riscoperta del proprio potenziale cosmico, fatto a immagine e somiglianza dell'Artefice universale. Ed eccoci all'alba della riscoperta d'una metafisica obliterata, dove finalmente al singolo è riconosciuto l'accesso alla scala dei valori universali.Non c'è dubbio, del resto,che questo sia il vero fermento di ogni genuino spirito creativo. L'artista è infatti,da sempre, un uomo che cerca spietatamente se stesso, ed è qui che scatta il suo desiderio di essere autentico, il suo impegno morale con se stesso, la sua creatività unica e inconfondibile Così l'angelicità, in Piali, si presenta con una duplice funzione: materia e spirito, preghiera e azione. Questa duplicità si manifesta attraverso due simbologie fondamentali - quella della battaglia e quella del volo - in una serie di intrecci, di vincoli e di svincoli, dove si evoca nello stesso tempo la liberazione e la concretizzazione dell'io. E' un modo, questo, di considerare la spiritualità decisamente stimolante e innovativo, giacché per convenzione si reputa spirituale la negazione della materia oppure il suo cieco, asfissiante asservimento dello spirito. Si osservi la scultura marmorea che porta il titolo "Tensione", un essere dallo sguardo implacabile, un vero e proprio vampiro! Ma è il vampirismo dello spirito che cerca a tutti i costi di realizzare se stesso, senza colpo ferire, accumulando esperienze e succhiando linfa vitale dalla vita fisica, dove si proietta per potenziare se stesso e non per disperdersi nel plagio collettivo. E si osservi, subito dopo, il bronzo elegante e ieratico che porta il titolo "Sovrano", dove si sviluppa, senza forzature moralistiche, un allungamento ascensionale della figura umana, in un attorcigliamento autonomo su se stessa e in una sorta di risucchio volontari verso l'alto, che è poi l'altro di se stessa, il suo alter ego, la sua individuale essenza, la sua fonte primaria di energia. Sono due opere che contrastano vistosamente fra di loro, due movimenti antitetici: l'uno orientato verso l'immanenza, l'altro verso la trascendenza. Eppure, in questo contrasto, quanto equilibrio e quanta armonia! Se da un lato lo spirito è tuggitivo, dall'altro è il segno più tangibile e presente della vita. Realizzare questa presenza assenza non è certamente facile in scultura, dove regna sovrana la materia, l'invasione fisica dello spazio, la volumetria. Nell'opera pittorica - per sua natura più libera e più immaginifica della scultura - Piali ha da tempo raggiunto l'equilibrio fondato sui contrari, e quindi sul giuoco sottile della materia e dell'energia. Ma già nei bassonilievi bronzei, dove si illumina il mare segreto di nascoste e prorompenti correnti di energia, si sviluppa un passaggio importantissimo verso il linguaggio della scultura. Senza nulla togliere alla spazialità e alla volumetria, l'opera scultorea di Piali si arricchisce ora di questo movimento interno di energia, di questo attraversamento di correnti invisibili e arcane, che la torcono, la avvitano, la sfaldano, la trasformano fino a farla tornare pura energia. Un giuoco - se cosi vogliamo definirlo - che non mortifica, né penalizza, ma accentua parossisticamente il valore della materia, quindi della stessa spazialità e della stessa volumetria. Nel suo insieme eterogeneo, si può dire che le poetiche dei nostri tempi - fatta eccezione, s'intende, degli autentici esempi creativi - abbiano sviluppato un'idea molto convenzionale del fare artistico secondo schemi a volte massificanti e altre volte emarginanti, comunque socialmente precostituiti. E' paradossale che si sia giunti a questo convenzionalismo ricorrendo l'ideale dell'autonomia dell'arte, in contrapposizione alle finalità moralistiche cui il coscienzialismo aveva in precedenza tentato di indirizzare le Muse. Evidentemente l'ideale formalistico dell'autonomia dell'arte - come quello decadentistico dell'arte per l'arte, o dell'arte come vita, ad esso collegato - non fa che subordinare ancora una volta il fenomeno creativo ad una funzionalità sociale, sia pure ribaltata. A produrre l'opera d'arte oggi non sarebbe più l'aspirazione verso un mondo ideale dogmaticamente precostituito, ma sarebbe la moda sociale o la costrizione sociale, il gusto o il disgusto del tempo, in una parola quel contesto psico-inguistico che dovrebbe invece costituire soltanto l'aspetto orizzontale della comunicazione artistica. In tal modo tutto diviene fotocopia. Perché? Perché non c'è verticalità, non c'è autenticità, non c'è ricerca di se stessi. E l'artista si trasforma in un operatore ai comunicazioni sociali banali, scontatissime. A questo punto mi chiedo: cosa cambia se a soffocare la creatività sono le forme, i contenenti, anziché i contenuti? Il "contenere" non ha senso, né nel suo aspetto formale, significante, né in quello sostanziale, significativo. L'opera può trattenere, non contenere, l'incontenibile energia creatrice! Questa vorrebbe essere bloccata dall'assolutismo relativistico dei nostri tempi, cosi come nei tempi andati veniva conculcata dall'arroganza cosiddetta metafisica, altrettanto assolutistica. Fortunatamente i poeti e gli artisti non si sono sempre lasciati coinvolgere in questo giuoco perverso e hanno saputo dar vita a guizzi creativi autentici. Piali lo sta a dimostrare ampiamente. A mio parere, è questa creatività, questa facoltà di comunicare con il proprio stampo e con la propria matrice universale, che bisogna riscoprire oggigiorno, per dare di nuovo slancio all'intorpidito vivere quotidiano. Oggi il divenire sembra morto e l'esistere sembra essere il suo scheletro. Ma questo è vero solo da un punto di vista culturale, perché la nostra cultura è agonizzante ed è per questo che la si deve rinnovare. Infatti la vita è viva, se individualmente noi lo vogliamo. E' in questa urgenza di rinnovamento profondo che consiste il lavoro di Stefano Piali. La sua arte è la dolce rottura degli schemi. E' l'rruzione dellignoto nel noto per ravvivarlo e ridestarlo dal suo torpore. Nella sua opera c'è il richiamo dell'infinito, c'è lo svelamento dell'essere, il palesarsi dell'universale. C'è il ritrovarsi dell'uomo con se stesso, il suo godere di se stesso, dando voce alla profondità di se stesso e ricongiungendosi con la propria energia spirituale. E non è che questa comunicazione verticale con se stesso tolga il valore o senso alla comunicazione orizzontale, con i propri simili linguaggio creativo giunge di riflesso a chi vive accanto, senza aggressività, senza presunzione e senza plagio, promuovendo nel fruitore un autentico, ma altrettanto individuale, slancio di elevazione universale. Ogni ingegno creativo crea la propria festa spirituale, in una scossa che può anche folgorare altri individui, non per sottometterli, ma per far scattare in loro la stessa rinascita, in un contagio che chiama in causa il loro stesso potenziale morale e creativo. Non più, dunque, l'autonomia dell'arte, ma l'autonomia dell'artista! Non più l'arte per l'arte, ma l'arte per l'uomo! E non per l'idee dell'uomo, come accadeva in passato, ma per l'uomo, affinché conosca se stesso e si innamori sempre più di se stesso, riavvicinandosi alla sua patria cosmica e ritrovando il senso della sua avventura terrena.

Febbraio 1993

Nel “Miracolo del ritrovamento del corpo di S. Marco" del Tintoretto (oggi conservato presso l'Accademia di Brera), un lungo corridoio risucchia la prospettiva generale del dipinto vorticosamente verso il fondo. Il ritmo che scandisce l'intricato imbuto spaziale è folgorante, non vi è sosta per l'osservatore, l'occhio viene rimandato ad alternanti cavità luminose e buie, tutto è energia in sviluppo e l'azione si consuma in un attimo. In un sol colpo, leggenda, storia e umanita vengono coinvolti e stravolti in un tragico gorgo! Ho voluto ricordare questo suggestivo brano di storia dell'arte soltanto per chiarire e chiarirmi alcuni aspetti della pittura di Stefano Piali che, del resto, seguo con interesse già da molti anni ed ho visto evolversi in più di qualche fase. Del suo lavoro si è sempre parlato in termini di mitologica riesumazione, di anacronicità e di citazionismo colto, ma mai in chiave dinamico-spaziale, eccezion fatta per l'interessante studio di Nicola Micieli. Eppure il “moto", inteso come condizione primaria dell'essere e come fondamento escatologico per comprenderne la natura dovrebbe far supporre un prologo indispensabile a qualsiasi approccio ermeneutico alla sua ricerca. Moto e stasi sono due poli entro cui si dibatte l'aspro tracciato della pittura di Stefano Piali. L'universo è uno, ma la sua unità e dinamica e viva, in quanto include la moteplicità e le opposizioni come sua articolazione perenne. Come per Eraclito, anche in questo caso "tutto diviene e muta, nulla rimane identico a se stesso, la guerra è madre e regina di tutte le cose e soltanto dalla opposizione nasce la vita" (Cornelio Fabro, "Storia della filosofia", Roma 1954, pag, 11). Difatti, che l'approccio dicotomico tra dinamismo e contenplazione fosse il referente principale del pensiero di Piali, se ne potrebbe trovare testimonianza già in alcune tele della fine degli anni settanta Allora, il pittore veniva misurando il grado di attendibilità provocatoria della materia attrverso un uso ultrarealistico dell'immagine, quasi ne volesse far sua la verità storica, quasi ne volesse sorprendere la segreta dinamica degli elementi, ossia parteciparne fino in fondo dell'evoluzione. I soggetti di quelle tele erano generalmente uomini e donne colti nell'attimo precedente o poco successivo l'azione, quando lo sforzo era dilatato fino allo spasimo e le membra conservavano ancora i segni della sofferenza. II dinamismo di quelle anatomie ricordava accelerazioni barocche berniniane, di un Bernini più contemplativo ma non meno efficace nel suo rapido dominio dello spazio. Una lotta di contrapposizioni respingeva e, nel contempo, avvolgeva quelle creature rendendole tenere e feroci, ignare e consapevoli del dolore. La materia di quelle superfici era tesa e compatta, il colore avvolgeva ogni angolo del racconto senza lasciare tregua al caso o a illusioni informali. Segno-colore-luce erano i tre referenti di quell'universo, le tre basi vettoriali con cui Stefano Piali narrava al mondo la sua ansia generativa di forme e arcobaleni di luce. Dentro quelle tele il tempo esisteva come un attimo che fugge, come briciola e polvere infinitesimale di un moto generale delle cose altrimenti iggoto. I suoi personaggi, dunque, sviluppano la loro esistenza in frammenti temporali cosi minimi da essere quasi impercettibili e cosi grandiosi ed eroici da considerarsi troppo veri rispetto la realtà. Nei primi anni Ottanta tali forme iniziarono poi a moltiplicarsi e dare della propria immagine uno sviluppo multiplo nello spazio. Ed ebbe cosi principio il ciclo dei "Corpi in movimento" di cui l'opera "il gioco" rimane la più alta testimonianza con quello straordinario e diaframmato ripetere l'immagine di quei giovani in movimento I due lottatori, infatti, restituivano al mondo la loro presenza attraverso una ripetizione seriale dei loro soggetti dinamici. La loro posizione nello spazio rendeva incerta ogni loro coordinata fissa dando della superficie valore di mobile apparenza. Piali passava così da una prima fase, potremmo dire barocca ad una più complessa e articolata visione delle cose. In altre parole il suo dinamismo berniniano veniva modificandosi in un'accelerata dimensione temporale più vicina al moderno concetto dell'equazione bergsoniana di "simultaneità" che non a quella metabolica e scenografica barocca. Quei volti proiettati in evoluzione figurale ricordavano i fotogrammi di Anton Giulio Bragaglia nel loro asciutto e severo compito di indagatori dello spazio, di attraversatori di luce, di abitatori di lusioni. In essi la coscienza dell'esistere non si sviluppava tanto nel con fronto realista con il tempo,quanto con una precoce distinzione tra quest'ultimo e l'essere. E se il tempo fuggiva sempre più come nozione razionale, l'essere veniva a trovarsi coinvolto in una maggiore partecipazione all'infinito dramma dell'universale, perdendo caratteristiche e particolari immanenti.L'essere slegandosi dal tempo aveva bisogno di ritrovarne un altro. Magari fittizio, llusorio, negativo o positivo, irreale o fantastico che fosse. Ed ecco che, verso la metà degli anni Ottanta Stefano Plali via un nuovo ciclo di immagini in cui un viaggio fantastico le ripone dentro una dimensione illusoria, mitica se è detto. La nascita di questa nuova avventura nella sua pittura è stata ben descritta da Elio Mercuri nella piccola monografia del 1987 “Prossimi all'irrompere in una nuova epoca - scrive Mercuri - nella quale un ciclo della civiltà dell'uomo si conclude, nell'imminenza di una "mutazione" della specie, i cui referenti sono poco chiari, viviamo il travaglio di un processo e la disperante e sofferta ricerca del nostro Fato". Il fato dei moderni riconosciuto poi in quella formula di riattivazione storica denominata successivamente come "anacronicità", ossia come perdita del "centro" temporale e dunque come azzeramento stilematico delle tendenze ed infine,come possibilità di accesso al codice trasversale delle formedell'arte,diviene per Piali qualcosa di nuovo e di proprio. Infatti per il giovane pittore l'essere "anacronico" dei suoi dipinti non era quello "ricostruito" dentro un tempio delle forme riconosciute come è accaduto per il manierismo" di Bruno D'Arcevia o del citazionismo "colto" di Mariani. Il suo sguardo, entrando nella dimensione del Mito rivelava a sè soltanto stupore e meraviglie, metafisico silenzio di spazio e titanico sommovimento di forze primigenie. Con la ricostruzione di uno scenario atemporale Stefano Piali giunge finalmente - verso la fine del decennio - ad un vocabolario di forme libere nell'espressione e nella loro articolata e ostinata volontà d'essere. Azzerati gli schemi riduttivi della realtà storica, l'artista riconquista alle sue immagini leggerezza, vaporosità, affrancazione gravitazionale, mobilità. Frammenti di sagome di guerrieri, di donne, di cavalli, di centauri, di angeli dannati, incrociano vorticosamente cieli cupi e tempestosi, dando vita a battaglie cruenti, fatte di colpi rapidi, di fendenti mortali, di improvwisi rovesciamenti di fronte. In essi la tensione non ha mai fine, il culmine della lotta è costante e non registra abbassamento di tono. I muscoli sono turgidi, i volti contratti, i gesti sfidano veloci questo spazio spettacolare di non storia. Energia e contenimento lottano disperatamente una guerra infinita sopraffacendosi vicendevolmente, ma mai riportando una vittoria definitiva. In tutto ciò il Mito è soltanto una supposizione, un pretesto per liberare lo spettacolo della storia e, forse, una metafora per meglio spiegare l'origine della materia. Materia che è risultante di forze contrapposte, dinamicamente collusive e, quindi, evocativa di ogni forma. E' l'opposizione eraclitea da cui tutto si origina e da cui tutto prende vita, si genera e muore. L'eterna battaglia fa ribrillare la luce in pulviscoli infinitesimali perché soltanto in quel luogo minimo di spazio l'uomo ritrova il suo codice primigenio. Stefano Piali, rifuggendo in un mondo senza realtà, è riuscito a ricreare "un vitro", una porzione di verità filosofica (e in quanto tale scientifica) del grande scoppio, del big-bang, del momento zero dell'universo, del non-luogo da cui presero ordine tutte le cose, nella furia dell'istante. Come Roupnel "il tempo non ha che una realtà, quella dell'istante", cosi in questa pittura lo spazio non ha che un luogo, quello frammentario dell'attimo. Concludendo con Bachelard, si può affermare che "il tempo è una realtà racchiusa nell'istante e sospesa tra due nulla. Il tempo potrà senza dubbio rinascere, ma dovrà prima morire" e che "l'istante è già solitudine". E' la solitudine nel suo valore metafisico più nudo. Ma una solitudine d'un ordine più sentimentale conferma il tragico isolamento dell'istante: con una sorta di violenza creatrice, il tempo limitato all'istante ci isola soltanto dagli altri, ma non da noi stessi, poiché esso rompe con il nostro passato più caro", ossia il nostro presente, la nostra realtà.

Febbraio 1990

Volendo sintetizzare in un'immagine calzante ed evocativa la pittura di Stefano Piali penserei alla metafora del volo. Come dire l'impulso irrefrenabile ad attivare energie liberatorie, per dispiegare il pensiero oltre i recinti della conoscenza omologata e gli stereotipi della comunicazione. E' una tensione connaturata, una vocazione tanto perspicua da aver informato l'opera dell'artista, variamente configurandosi in linee-forza che ritmano la superficie come veri e propri vettori dinamici o governano il fluire sciolto e sinuoso delle strutture nello spazio. Né mancano le risoluzioni per cosi dire simboliche, più che formali, ossia le situazioni iconografiche e tematiche in cui implicita è l'idea del superamento dello stato involucro corporale per irradiare energia astrale. L'aspirazione a significare e a rappresentare il processo polivalente del volo e della liberazione è un tratto distintivo nell'opera di Piali. Direi che è la costante più agevolmente individuabile, sul piano sia dei cosiddetti contenuti che del linguaggio pittorico. Le più interessanti acquisizioni stilistiche conseguono proprio alla neccessità di fornire più sofisticati strumenti linguistici a siffatta aspirazione, e bisogna dire che sebbene ancor giovane, l'artista romano ha compiuto una ricerca che ha già una sua stratificazione, mostrandosi assai provveduto di capacità esecutiva, fervore inventivo, profondità poetica. C'è in ogni dipinto, e nelle scuiture che sono scaturite in modo conseguente dalle salde membrature in cui andava assestandosi la forma pittorica,c'é nell'agitazione della materia e nei segni che la percorrono,come un'ansia di sciogliere i nodi e gli inghippi, le inibizioni psicologiche e i vincoli materiali che impediscono i voli, di librarsi ove più puri sono i cieli e più vasti gli orizzonti dispiegati allo sguardo. Non è una mia sensazione, ma un dato di fatto. Chi fosse bastevolmente incuriosito potrebbe tentare, per propria soddisfazione un inventario dele forme chiare o implicite, allusive o figurative che dal volo compaiono nel'opera di Piali, dagli esordi a oggi. I riferimenti sono sovente espliciti, sotto specie di ardita evasione di Icaro o di atre allegorie dela fuga dai labirinti della mente e dai meccanismi della materia, non meno che dalle secche di una condizione umana di imiducibile servitù esistenziale. Sono tentativi eroici e titanici affidati a creature mitologiche, a figure araldiche che sanno di trionfo medioevale, a gruppi plastico-pittorici in cui si ravvisano celebri luoghi del mertirologio cristiano, non meno che della mitologia classica e pegana. Giostre di cavalieri si avvitano rapinosamente nello spezio, in eccitanti viluppi di corpi e panneggi. Inestricabili sono gli intrecci dele figure impegnate nell' atto rituale d'una deposizione dalla croce o in più profane liturgie. Sempre é implicato un altro potenziale di energia che si manifesta con l'esibizione e all' interno dello stesso corpo, in cui si esercita la dialettica dell'erotismo insieme vitalistico e distruttivo. Non è senza significato i fatto che Piali, attinga oggi al repertorio della tradizione pittorica i materiali istitutivi della metafora che si è voluto chiamare del volo. In particolare appare rivelatrice la predilezione per gi aurei modelli iconografici manieristi e berocchi, sui quali si innesta l'acuta sensibilità vitalistica dell'artista, il suo feticistico culto della materia investita dall'energia che la vivifica e l'annichilìsce a un tempo. A quelle ormai antiche forme Piali ha infatti attinto le estenuazioni formali che tanto lo attraggono, non meno che la carica passionale, il fervore mistico che nutre il linguaggio del corpo fisico e di quello simbolico della pittura, nel quale si esprime altresi il coacervo dei depositi psichici in tutta la sua portata di violenza irrazionale. Riferendosi agli stilemmi manieristici e barocchi, l'artista romano ne riconosce l'identità profonda sul piano della sostanza espressiva. Non compie, insomma, un'operazione accademica di recupero formalistico, una "rivisitazione" in chiave metalinguistica, ossia un'appropriazione citazionistica nello spirito di alcune importati esperienze contemporanee. Direi che nel caso di Piali il recupero manierista parte certo dall'icona, ma per tradirla lungo il cammino ossia per minarne e alterarne l'integrità originaria esasperandone la struttura, contaminandone la materia, il colore, ulteriormente complicando la composizione originaria. In definitiva, il laboratorio stesso dell'artista, con i materiali che lo invadono e lo contrassegnano, si offre come luogo metaforico privilegiato, per raccontare una vicenda più intima che coinvolge la totalità dei referenti psicologici ed esistenziali su cui Piali sintonizza il proprio tempo umano. Un "Ratto d'Europa" e una "Deposizione",un'apocalittica fuga di cavalieri o quant'altro, non sono che apparenze formali da leggersi come metafore: rivelano l'ambiguità dell'essere e l'mpossibilità di definirne l'identità e la conformazione certa, duratura oltre la convenzione rappresentativa del tema iconico, il riconoscimento di una tipologia fisiognomica, la descrizione della maschera che ce la rivela. A tale focalizzazione metaforica Piali è pervenuto attraverso passaggi rigorosamente concatenati, giocando sulla qualità della figurazione non meno che sugli elementi formali costitutivi, quali la materia e il segno. Al centro dell interesse è sempre il problema del moto e del volo. Sullo scorcio degli anni settanta, quando a prima personale acquisizione stilistica, era la rappresentazione sincronica di numerosi movimenti, ciascuno affidato a una figura artificiolmente articolata nel gruppo. Alla tecnica virtuosistica della composizione, che non chiameremo neomanierista perché ancora non sufficientemente filtrata sul piano intellettuale, corrispondeva l'acribia lenticolare dell'esecuzione mirata alla restituzione del dettaglio visivo, n ell'ottica d'un iperrealismo estraneo a ogni intenzione ideologica, nel senso di rappresentare l'aspetto alienante dell'esistenza metropolitana. Evidentemente, Piali tentava di figurare una condizione dell'essere stuggente e aleatoria, che è la percezione dell'impossibilità e uno stato dove è un divenire. E' questo il problema di fondo dell'arte: ispirandosi alla vita, essa non può darne che un simulacro improbabile e astratto, una figura dell'appanire arbitrariamente estrapolata dal flusso del quale irreversibilmente si dissolve. Per tale retroterra problematico, nelle prove iniziali all'integrità delle figure, eseguite con una pittura pulita e compatta si oppongono lo squilibrio della composizione e la moltiplicazione di atti e movimenti attraverso il ventaglio dei corpi che visualizzano alcune delle posizioni possibili nel diagramma del moto. A questo periodo di massima definizione figurale potremmo contrappore le opere che, dopo circa un decennio, preparano la presete stagione. Penso ai dipinti pubblicati nel catalogo della mostra Neukölln (1987), che Elio Mercuri intitolo per il Fato dei moderni che anticipano, in pratica, i temi e le struture compositive oggi trionfanti, però mantenendosi su una refenzialità figurale molto generica, salvo la diffusa e vieppiù riconoscibile presenza del cavallo, cui si attribuisce virtù generativa di moto, che è un associazione simbolica non nuova, e particolarmente praticata da Boccioni. Una distinzione notevole pertiene, inoltre, alla qualità della materia pittorica e alla definizione ottica della visione: questa sfuocata gradatamente dal primo piano allo sfondo, sino al dissolvimento finale nell'indistinto, quella trattata con larghezza turbinosa, ma senza alcun brutalismo magmatico, anzi tesa a polarizzarsi, a condensarsi nella flagranza di una figura, che par materializzarsi da una dimensione remota dello spazio. Tale modalità visualizzatrice è di ispirazione ancora una volta simbolica e di matrice specificamente boccioniana e futurista. Del resto, Piali aveva precedentemente elaborato strutture dinamiche atte ad animare visivamente le superfici mediante saettanti volute, suscettibili di assumere consistenza plastica, come di fatto accade al culmine del ciclo nel 1985, con il "Monumento all'aviazione generale", un grande bronzo collocato all'aeroporto di Ciampino. Nonostante l'apparenza meccanicistica di quelle opere serrata e fors'anche un po' schematica stilizzazione delle fome, sono propenso a scorgere una proiezione cosmografica di pulsioni profonde, di tensioni interiori che sullo schermo dell'immagine si rovesciano e si amplificano con modo ondulatorio e ritmo parossistico. In breve ne viene interessata la qualità dello spazio, che risulta vigorosamente strutturata con logica costruttiva (memore, come si è visto, della persistente lezione barocca), prima che futurista nel senso della simultaneità. Quando si sia detto che tali strutture dinamiche scaturivano dalla scomposizione analitica delle precedenti figure di altra definizione, si capirà come Stefano Piali abbia in poco più di un decennio compiuto un percorso a cicli strettamente interconnessi, definendo nel luogo della pittura e del corpo lo specchio poliedrico d'una realta anche culturale in divenire. Una realtà che mostra aspetti sempre diversi e imprendibili, incluse le sedimentazioni storiche e le stesse restituzioni iconografiche date nello specifico della metaforoa pittorica, cui l'artista attinge come alla propria fonte elettiva, per tentare ulteriori voli dell'immagine oltre i recinti delle convenzioni.

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